A onor del vero
08/10/2024
Non ho certo categorie da difendere o posizioni d'agenda da tutelare, e quando oltretutto il rischio possa essere quello di cadere in svianti teorie da complotto.
Trattasi soltanto di realistico buonsenso.
In merito alla questione ebraica, a oggi un popolo che possa dirsi si sia fatto più di due conti con annesso esame, questi è proprio quello tedesco:
1) Se una religione sostanzialmente pratica (e non tanto fideistica) come quella ebraica, la si abbia voluta accusare di esclusivismo al cospetto di un'altra di tipo universale o eterodosso, e che allo stesso modo ne abbia fomentato di altrettante - sempre da sua strumentalizzata radice - e che grazie a questa l’etnia stessa giudaica sia poi diventata popolo e razza;
2) Ché a discapito di ciò, su ogni citato dettagliato aspetto, quando perfino riguardante questioni misteriche o esoteriche, se ne abbia voluto fare, concorrenzialmente, una completa sostituzione, in questo facendone oltretutto un “processo alla ricchezza”, e soltanto per questioni da primo conflitto mondiale;
3) Se tutto ciò poteva giustificare quanto successo durante il secondo conflitto mondiale, e nei confronti di una sola etnia, quella ebraica, e soltanto perché al suo interno poteva esserci qualche eretica o settaria voce dissonante, come se nessun’altra etnia l'abbia mai avuta o la possa sempre avere;
4) Come detto dunque, dal dopoguerra in poi, è il popolo tedesco ad aver preso consapevolezza di tale questione.
Di qui, e a prescindere, ne vediamo comunque la propagazione di un antisemitismo in versione islamica o mediorientale, che non ha permesso alla comunità araba stanziata in Palestina fino al 1947, di darsi, per scelta propria, uno Stato a oggi così tanto acclamato.
È da allora che da parte arabo-islamica si è entrati in una continua spirale oltreché di violenza, di vittimismo.
Intendiamoci, nella cosiddetta Nakba, che i palestinesi se ne siano andati o siano stati cacciati poco cambia, comunque avevano già scelto di essere avversari, nemici.
Purtuttavia, dopo un iter di settant'anni circa, tra provocazioni, conseguenti guerre e concessioni, ora che l’ala islamica a rilevanza semita, ovvero quella sunnita, ha trovato in Israele un nuovo garante (andati via gli statunitensi da quell'area) ecco ripetersi, con il 7 ottobre 2023, e per iniziativa iranica, la medesima spirale vittimistica e di violenza: dall'ennesima, drammatica infame provocazione, la pretesa - e in secondo luogo da parte di alcune opinioni pubbliche - che quasi non si debba reagire, come se ancora siano sufficienti degli accordi diplomatici per mettere fine a tutto ciò, sia sul versante interno israelo-palestinese (Gaza, Cisgiordania) che su quello persiano.
Quasi come se questi accordi fossero sufficienti a placare le ire o le intenzioni di chi aveva già deciso che tu non dovevi esistere.
E di parte giudaica non si tratta, in egual misura, di uno scimmiottamento reazionario da Terzo Reich, che nell'ebreo, con l'ulteriore "eretica" scusante, ne faceva un capro espiatorio.
Trattasi invece di una questione d'esistenza, e prima che come Stato, come persona.
E quella popolazione palestinese che in quel 7 ottobre 2023 festeggiava in piazza l’arrivo dei sequestrati, e ne assisteva e se ne compiaceva delle percosse e delle violenze perpetrate, non la stani di certo (e ancora) con degli accordi o con dei compromessi, se non addirittura con una sorta di pace utopica, attraverso un supposto inspiegabile revisionismo da dispute precedenti.
Anche perché, in un modo o nell'altro quei sequestrati li devi andare a riprendere.
Di ciò sembrano essersene fatti una ragione perfino i loro vicini.
Un po’ meno quelli persiani, che oltre a vivere di un reverenziale, imperiale recondito timore di essere invasi, o per meglio dire “conquistati culturalmente" (i tedeschi, come detto, nel dubbio provarono direttamente a "sostituire e a sostituirsi") dagli accordi di Abramo, sembra si pongano più il problema di non perdere la propria influenza su quell'area.
E in una situazione come questa, il cittadino ebreo-israeliano dovrebbe preoccuparsi di provocare rigurgiti di antisemitismo?
A voler essere obiettivi, sarebbe semmai quello palestinese che prima di qualsivoglia iniziativa o reazione, avrebbe dovuto meditare meglio sulla natura di alcuni modelli politici (in primis quelli riguardanti un certo antisemitismo, nel suo caso più propriamente anti-ebraismo) sull’azione di alcune sue classi dirigenti - nonché “meno” dirigenti - e Stati a lui vicini.
Il resto, e per l'appunto, è un voler cercare, un voler trovare alibi su forzati accostamenti tra terrorismo e popolazione locale, e per questioni pseudo-fideistiche o pseudo-democratiche, se non perfino propagandistiche, di un presunto idealismo occidentale.
L'odio provocato
17/10/2023
E proprio partendo dal teorema, se così lo si può chiamare, enunciato dal prof. Giorgio Galli, il quale ci dice come a primo conflitto mondiale concluso, l’inganno britannico nei confronti della Germania, mise poi le classi dirigenti tedesche nelle condizioni di trovare un contrappeso alla crisi economica dovuta a quelle stesse “promesse mancate” (come di un qualcosa che la Germania perdendo avrebbe ottenuto in cambio) in coincidenza dunque di un comunismo, che come scelta di campo da parte di quei poteri illuminati avrebbe dovuto divampare in tutta Europa e non solo (e sebbene dalla Gran Bretagna alcune classi dirigenti conservatrici, a seguito di ciò, sostanzialmente vollero e crearono il fascismo italiano).
Contrappeso che, come si può ben immaginare, si rivelò con la scelta del partito nazionalsocialista tedesco al potere, per risolvere l’annosa suddetta questione, e risollevare la nazione soprattutto in termini economici.
Così come per un’Italia vincitrice nel conflitto, gli inglesi, nel complesso, non avrebbero mai corrisposto alle promesse fatte nei confronti di una Germania che “vinceva perdendo”, per il semplice motivo che quel conflitto mondiale non avrebbe avuto senso farlo, se poi di lì fino al Caucaso, al Medio Oriente e anche oltre, si fosse lasciata in vita una temibile Germania erede del suo stesso imperialismo, che di quelle zone fino al giorno prima ne controllava destini e risorse.
In ciò si spiega perché il nazionalsocialismo non si fidò mai nel fare il condominio d’Europa con la Gran Bretagna (e nonostante le accennate correnti conservatrici britanniche avessero preso già il sopravvento, concedendo all’Italia, oltreché la presa sui territori promessi nel dopoguerra, anche quella di alcune colonie in Africa) ma non si spiega perché non si preoccupò di riprendersi anzitutto quelle zone - Caucaso, Medio Oriente e oltre - che fino allo scoppio del primo conflitto mondiale le appartenevano, imbevendosi invece di dottrine razziali, in particolar modo anti-giudaiche e anti-slave, e nonostante le classi dirigenti che gli permisero di imporsi avessero, fin lì, considerato l’opera già compiuta (in termini di ripresa economica, rioccupazione ecc.).
L’epilogo a tutto ciò, fu niente meno che guerra fredda, democrazie a sovranità limitata sotto l’egida anglo-americana (e qualunque ne fosse la sfumatura ideologica) e il fattore “campi di lavoro o di concentramento” che altro non divenne che opportunità di accelerazione per uno Stato ebraico nel bel mezzo delle emergenti nazioni del Medio Oriente.
Che gli aiuti atti a far si che si potesse instaurare e riconoscere uno Stato ebraico in Palestina, possano aver d’improvviso - in una zona fino a quel momento piuttosto trascurata - acceso le ire per una reazione di parte opposta, non tiene sufficientemente conto della spinta propulsiva che non poco ha giocato in entrambe le popolazioni coinvolte: da una parte abbiamo un popolo, un’etnia, quella ebraica, preda di pluridecennali persecuzioni, che oltre al fatto di sentirsi danneggiata o strumentalizzata da certo internazionalismo "illuministico" dei suoi “fratelli maggiori” (in termini di potere effettivo) sentiva l’esigenza di avere uno Stato da ben prima dei conflitti mondiali, questo per via di un crisma proprio che in fondo non si discosta e non si è mai discostato troppo dal corrispettivo europeo e occidentale (e come detto a prescindere da oggettive ingerenze separatorie).
Questo suo spirito, questa sua qualità, incontrarono soltanto l’inconveniente di non possedere una terra, un confine, uno spazio ben delineato per esprimersi al meglio, senza quindi dover necessariamente risultare disturbanti, o al più apparire come il risultato di atteggiamenti camaleontici cui diffidare.
Dall’altra, di popolo, abbiamo quello palestinese, che certamente non aveva avuto le stesse esigenze e lo stesso trascorso di quello ebraico, e che rimasto fin lì a osservare, in fin dei conti non soffrì tanto di quelli che lentamente diventavano i suoi nemici, quanto delle alleanze che esso a confronto non ebbe (per un presunto antisemitismo, dal ‘36 al ‘47 del secolo scorso, per parte islamica, il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini, si rifiutò sempre di legittimare uno Stato palestinese a densità maggiore del corrispettivo ebraico).
Ma anche il popolo palestinese, nel tempo, dai suoi vicini ottenne aiuti, alleanze, che già in sé includevano il riconoscimento di un’istanza.
Che in fin dei conti potremmo però tradurre come l’ennesima strumentalizzazione di un popolo a danno di un altro, per cui siamo a un giocare alla guerra, anche quando alcune concessioni erano state fatte, alcune ire “da meno” palestinesi placate, i restanti Stati arabi disposti a sorvolare nel nome di una sinergia spiccatamente finanziaria, in uno scontro epocale/generazionale sempre più difficile da disinnescare.
Da un complessivo bilancio della lettura de Nazionalsocialismo e società segrete (link) e per ciò che in linea di principio se ne è potuto dedurre, la riflessione meriterebbe ancora qualche dettaglio, qualche spunto ulteriore.
E proprio partendo dal teorema, se così lo si può chiamare, enunciato dal prof. Giorgio Galli, il quale ci dice come a primo conflitto mondiale concluso, l’inganno britannico nei confronti della Germania, mise poi le classi dirigenti tedesche nelle condizioni di trovare un contrappeso alla crisi economica dovuta a quelle stesse “promesse mancate” (come di un qualcosa che la Germania perdendo avrebbe ottenuto in cambio) in coincidenza dunque di un comunismo, che come scelta di campo da parte di quei poteri illuminati avrebbe dovuto divampare in tutta Europa e non solo (e sebbene dalla Gran Bretagna alcune classi dirigenti conservatrici, a seguito di ciò, sostanzialmente vollero e crearono il fascismo italiano).
Contrappeso che, come si può ben immaginare, si rivelò con la scelta del partito nazionalsocialista tedesco al potere, per risolvere l’annosa suddetta questione, e risollevare la nazione soprattutto in termini economici.
Così come per un’Italia vincitrice nel conflitto, gli inglesi, nel complesso, non avrebbero mai corrisposto alle promesse fatte nei confronti di una Germania che “vinceva perdendo”, per il semplice motivo che quel conflitto mondiale non avrebbe avuto senso farlo, se poi di lì fino al Caucaso, al Medio Oriente e anche oltre, si fosse lasciata in vita una temibile Germania erede del suo stesso imperialismo, che di quelle zone fino al giorno prima ne controllava destini e risorse.
In ciò si spiega perché il nazionalsocialismo non si fidò mai nel fare il condominio d’Europa con la Gran Bretagna (e nonostante le accennate correnti conservatrici britanniche avessero preso già il sopravvento, concedendo all’Italia, oltreché la presa sui territori promessi nel dopoguerra, anche quella di alcune colonie in Africa) ma non si spiega perché non si preoccupò di riprendersi anzitutto quelle zone - Caucaso, Medio Oriente e oltre - che fino allo scoppio del primo conflitto mondiale le appartenevano, imbevendosi invece di dottrine razziali, in particolar modo anti-giudaiche e anti-slave, e nonostante le classi dirigenti che gli permisero di imporsi avessero, fin lì, considerato l’opera già compiuta (in termini di ripresa economica, rioccupazione ecc.).
L’epilogo a tutto ciò, fu niente meno che guerra fredda, democrazie a sovranità limitata sotto l’egida anglo-americana (e qualunque ne fosse la sfumatura ideologica) e il fattore “campi di lavoro o di concentramento” che altro non divenne che opportunità di accelerazione per uno Stato ebraico nel bel mezzo delle emergenti nazioni del Medio Oriente.
Che gli aiuti atti a far si che si potesse instaurare e riconoscere uno Stato ebraico in Palestina, possano aver d’improvviso - in una zona fino a quel momento piuttosto trascurata - acceso le ire per una reazione di parte opposta, non tiene sufficientemente conto della spinta propulsiva che non poco ha giocato in entrambe le popolazioni coinvolte: da una parte abbiamo un popolo, un’etnia, quella ebraica, preda di pluridecennali persecuzioni, che oltre al fatto di sentirsi danneggiata o strumentalizzata da certo internazionalismo "illuministico" dei suoi “fratelli maggiori” (in termini di potere effettivo) sentiva l’esigenza di avere uno Stato da ben prima dei conflitti mondiali, questo per via di un crisma proprio che in fondo non si discosta e non si è mai discostato troppo dal corrispettivo europeo e occidentale (e come detto a prescindere da oggettive ingerenze separatorie).
Questo suo spirito, questa sua qualità, incontrarono soltanto l’inconveniente di non possedere una terra, un confine, uno spazio ben delineato per esprimersi al meglio, senza quindi dover necessariamente risultare disturbanti, o al più apparire come il risultato di atteggiamenti camaleontici cui diffidare.
Dall’altra, di popolo, abbiamo quello palestinese, che certamente non aveva avuto le stesse esigenze e lo stesso trascorso di quello ebraico, e che rimasto fin lì a osservare, in fin dei conti non soffrì tanto di quelli che lentamente diventavano i suoi nemici, quanto delle alleanze che esso a confronto non ebbe (per un presunto antisemitismo, dal ‘36 al ‘47 del secolo scorso, per parte islamica, il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini, si rifiutò sempre di legittimare uno Stato palestinese a densità maggiore del corrispettivo ebraico).
Ma anche il popolo palestinese, nel tempo, dai suoi vicini ottenne aiuti, alleanze, che già in sé includevano il riconoscimento di un’istanza.
Che in fin dei conti potremmo però tradurre come l’ennesima strumentalizzazione di un popolo a danno di un altro, per cui siamo a un giocare alla guerra, anche quando alcune concessioni erano state fatte, alcune ire “da meno” palestinesi placate, i restanti Stati arabi disposti a sorvolare nel nome di una sinergia spiccatamente finanziaria, in uno scontro epocale/generazionale sempre più difficile da disinnescare.